Il laboratorio come struttura per l’educazione estetica

Il laboratorio come luogo di conoscenza

Nella Road Map di Lisbona, recente documento europeo[1],  importante esito di una conferenza mondiale sull’educazione artistica, è fermamente ribadita l’importanza di questa nella formazione integrale della persona.

L’arte è infatti territorio di rielaborazione problematica  e soggettiva di temi di importanza universale.  La conoscenza dei modi in cui gli artisti «esplorano e comunicano la loro visione dei diversi aspetti dell’esistenza e della coesistenza» favorisce l’accoglimento delle prospettive altrui, «permette di coltivare in ogni individuo il senso della creatività e dell’iniziativa, un’immaginazione fertile, un’intelligenza emozionale, valori morali, spirito critico, senso dell’autonomia, e dunque libertà di pensiero e d’azione».

Educare all’arte consente di mantenere in dialogo i processi cognitivi e quelli emozionali, la cui divaricazione, secondo alcuni, è tra i fattori del declino della moralità nella società moderna. Infatti i processi decisionali sono nutriti dalla sfera emozionale, senza il coinvolgimento delle emozioni, questi risultano gestiti freddamente sulla base di elementi razionali[2]. Come scrive Arnheim, ma come sottolineano anche tutti coloro che si sono occupati a vario titolo della pedagogia dell’arte, se tale è la portata formativa di una corretta educazione estetica, essa non può essere relegata ad un tempo e ad uno spazio limitati, ma è fondamentale che al contrario permei di se ogni aspetto dell’insegnamento, divenga «stile metodologico dell’educare»[3], afferma Dallari, che è uno dei principali studiosi italiani che si occupa di didattica dell’arte, al cui pensiero spesso avrò il piacere di riferirmi nella trattazione di questo interessante argomento.

Promuovere una conoscenza estetica significa in primo luogo promuovere la conoscenza dei fenomeni che si offrono ai sensi e dei processi psichici coinvolti in  questo sentire, in ultimo comprendendo dunque i meccanismi di percezione delle nostre strutture sensoriali, che precedono il prodotto del nostro vedere (toccare, sentire, etc.) e sono a monte anche dei meccanismi di creazione delle immagini, vincolandone la produzione a precisi codici. Significa anche contemporaneamente sollecitare un allenamento emotivo all’utilizzo dei sensi nella esperienza quotidiana, spesso dominata dall’apatia, dalla ripetizione meccanica che ci rende insensibili rispetto alla bellezza (o bruttezza) delle cose che ci circondano[4].

All’interno poi di tutte le produzioni dell’essere umano, quella particolare forma espressiva che noi chiamiamo arte necessita di un bagaglio culturale e di un atteggiamento di investigazione particolari: richiede conoscenza e comprensione dei suoi apparati linguistici, simbolici, necessita di interpretazione e di decodifica dei suoi livelli di significato, ma non solo. Come suggerisce Dallari, educare i bambini all’ arte significa entrare in un territorio accidentato, accettando il rischio dell’indefinito, lo stupore, la vertigine, anche la mancanza di risposte che essa può trasmettere. L’opera d’arte impegna l’individuo che intende fruirne in un dialogo con la propria sfera interiore, l’arte è fruita da ciascuno secondo il proprio bagaglio esperienziale e in questo senso si può dire che, fermo restando il carattere oggettivo e concreto dell’oggetto artistico, il suo significato venga continuamente rifondato dallo sguardo di chi la legge. Ovviamente, per attivare una minima comprensione delle opere d’arte, occorre la conoscenza preliminare degli apparati linguistici e simbolici attraverso i quali queste si esprimono [5].  Non posso avvicinarmi alla comprensione di un oggetto artistico (ma anche di una qualsiasi immagine) senza una minima attrezzatura culturale, senza essere minimamente avvertito della sua complessità,  della necessità di cercare qualcosa.

Ma come può promuoversi questa particolare forma di conoscenza, come si forma l’attitudine a questo sentire? Questo processo può con i bambini essere attivato attraverso la dimensione poietica del fare (il richiamo è alla scuola filosofica di Anceschi e al pensiero di Dewey[6]), l’unica in grado di far familiarizzare l’individuo con le cose sensibili, emozionandolo, attivando il livello estetico della comprensione.

Nell’ottica del fare per comprendere, la pratica del laboratorio, allora, è fondamentale. In esso il bambino è direttamente implicato in un’operazione di scomposizione dell’opera nei suoi elementi primi, e di rielaborazione creativa della stessa in una personalissima riedizione dei suoi significati. Secondo alcuni ciò ancora non basta: secondo Dallari, ad esempio, l’incontro con l’arte non deve limitarsi alla scomposizione dell’opera nei suoi elementi formali alla ricerca dei significati correlati, ma andare ancora oltre, immettendo dell’esperienza artistica nell’esperienza quotidiana «idee, paradigmi, metafore e simboli».

Si comprende bene come, rispetto ad altri settori della conoscenza, l’educazione estetica sia molto più difficile da attivare da parte degli insegnanti, perché richiede, oltre che competenza, formazione specifica, anche una particolare sensibilità, attitudine alla pratica dell’ascolto, alla problematizzazione, la rinuncia a schemi consolidati. In questo senso, occorre, dunque, si, trasmettere la conoscenza filologica dell’arte, dei suoi protagonisti, opere, etc., ma è ancor più fondamentale  che dell’arte si veicoli la sua caratteristica apertura all’indefinito, attivando il livello estetico della comprensione, «comprendendo nel senso di prendere dentro di se, non solo nella mente, ma anche nel cuore», accettandone le suggestioni e le provocazioni. Inserita in un progetto educativo, l’arte, con tutto il suo corredo strumentale di apparati simbolici, di pratiche, di materiali, diventa quindi un’occasione di attivazione dei processi conoscitivi del reale e di rielaborazione produttiva e creativa delle rappresentazioni del mondo che da sempre questa rappresenta. Per fare ciò l’insegnante deve rinunciare al suo ruolo consolidato di colui che trasmette conoscenze, per assumere quello di un animatore. Come osserva ancora acutamente Dallari, citando Dorfles, la spiegazione del significato dell’oggetto artistico, tende ad annullare proprio lo spazio dello stupore che è il momento caldo dell’incontro con l’opera d’arte. Lo spazio dello stupore và dunque salvaguardato, solo dopo potrà esserci la comprensione, che non può annullarsi nella spiegazione, che tende ad esaurire tutti i significati ascrivibili a quelli precostituiti già individuati a monte.

Perché l’insegnante sia in grado di attivare questa conoscenza, è dunque  necessario che egli stesso si lasci andare al potere incantatorio dell’arte,  “sporcandosi le mani” con il fare, con lo sperimentare a sua volta il linguaggio, le tecniche e gli strumenti dell’arte; nell’impostazione di Dallari sembra implicita l’affermazione di una condizione ulteriore per l’esistenza di un valido insegnamento dell’arte. L’insegnante non solo deve possedere a sua volta un’alfabetizzazione circa i suoi linguaggi, ma deve essere in grado di rendersi protagonista, nell’ottica del “fare”, di un processo di creazione dell’opera. Ovviamente la conoscenza preliminare richiesta all’insegnante è elevatissima. Se l’insegnante non possiede sufficiente conoscenza rispetto ai temi, agli argomenti sollecitati dalla lettura dell’opera, se non possiede quel grado di conoscenza circa i codici visivi tale da consentirgli una lettura formale dei suoi elementi, allora sicuramente egli non sarà in grado di stimolare, guidare i bambini ad una sua interpretazione, di animare il loro circuito immaginativo. Infatti è ovvio che la spiegazione dell’opera, non data come precostituita, dovrà nascere oltre che dall’analisi della sua struttura formale, anche dalla conoscenza dell’autore, dei suoi temi,del contesto culturale in cui è vissuto, grazie al ruolo di mediazione assunto consapevolmente dall’insegnante, che dovrà saper porgere, opportunamente semplificandoli, questi temi.

Dal punto di vista operativo, all’interno del laboratorio possono quindi essere a mio avviso congiunti e non contrapposti due atteggiamenti nel porsi di fronte all’opera d’arte: l’uno più razionale, l’altro più emotivo, lasciando che essi dialoghino tra di loro.

Come abbiamo detto, infatti è necessario che i bambini possiedano un’attrezzatura teorica, un grado di alfabetizzazione visiva che li renda in grado di comprendere l’oggetto artistico e più in generale l’immagine. Se il laboratorio non deve definire regole e contenuti fissi, spiegazioni da trasmettere, salvaguardando lo stupore e l’aura di indefinito che l’oggetto artistico trasmette, si immetteranno direttamente nella fase operativa le conoscenze relative al linguaggio visivo, alle tecniche, agli strumenti e ai materiali propri dell’arte, che risulteranno funzionali al suo “svelamento”.

Nel laboratorio l’opera viene smontata e rimontata, scomposta e ricomposta: in tal modo si comprendono fattualmente i meccanismi attraverso i quali è percepita come tale, si comprendono i codici che la governano.  L’educazione all’immagine deve promuovere infatti  in primo luogo la comprensione razionale dei meccanismi che governano il processo di fruizione dell’immagine, attraverso l’analisi della sua struttura formale. Essa è prodotto delle strategie cognitive, percettive proprie dell’essere umano, che determinano poi anche  i modi in cui una qualsiasi rappresentazione traduce la realtà (guardata, immaginata, rievocata) attraverso appropriati equivalenti grafici. Il linguaggio grafico infatti si esprime attraverso una grammatica ed una sintassi che devono essere conosciute perché i bambini se ne possano avvalere nella loro sfera quotidiana, utilizzandolo spontaneamente come mezzo di espressivo.

La metodologia che qui si suggerisce di adottare nella pratica laboratoriale parte dunque dal presupposto della centralità della percezione visiva quale strumento di comprensione dell’immagine[7]. La creatività, in questo senso, sarebbe anche frutto di una comprensione razionale dei processi intellettivi che presiedono il vedere e il produrre le immagini[8].

In questo modo alla fine si svelano i significati che l’opera nasconde, si comprendono le tecniche, gli strumenti e i materiali attraverso cui è possibile esprimerli. Il fare è strumento di conoscenza in un processo di cui si afferma la centralità rispetto al prodotto finale.

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[1] Road Map per l’educazione artistica Conferenza mondiale sull’educazione artistica: Sviluppare le capacità creative per il XXI secolo.

[2] ” Una buona condotta morale, che costituisce la base della cittadinanza, necessita invece di un impegno emozionale. Secondo il professor Damasio, l’educazione artistica, incoraggiando lo sviluppo emozionale, può migliorare l’equilibrio fra quest’ultimo e lo sviluppo cognitivo e favorire così una cultura della pace”.

[3] M. Dallari, L’arte per i bambini, in AA.VV., Educare all’arte, Electa, Milano, 2005, pag. 17.

[4] C. Francucci, Arte come progetto educativo, in Educare all’arte, op. cit., p. 28-29.

 

[5] M. Dallari, Ivi, p. 19 e p. 20-21.

[6] John Dewey, L’arte come esperienza, Firenze, La Nuova Italia, 1951

[7] In analogia con le sperimentazioni da anni condotte dal Mart, Museo di Rovereto e Trento, nei suoi laboratori didattici di servizio al pubblico: AA.VV., Educare all’arte contemporanea. L’esperienza del Mart, a cura di M.T. Fiorillo, Milano-Ginevra, Museo di Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto, Skira, 2001.

[8] P. Parini, I Percorsi dello sguardo. Dallo stereotipo alla creatività,  Artemisia, 2000